mercoledì 7 settembre 2011

Al racconto CANELA di Sandro Bozzolo il primo premio di "Wine on the road"!



Tanti complimenti ancora al vincitore del primo premio del concorso letterario 2011 Villa Petriolo “Wine on the road. Appunti di viaggio…per cantine”!

Sandro Bozzolo è nato nel 1986 in Provincia di Cuneo.
Laureato in Scienze della Comunicazione, è autore dei documentari AUTUNNO VIOLA (2010), autoprodotto, e AMAZONIA 2.0 (2011), prodotto da Max Chicco.
Il suo racconto UN QUADERNO BLU, finalista al concorso letterario “Si libri la mente”, è stato pubblicato da “La Caravella Editrice”.

“Il racconto è una supernova che esplode la sua carica di ricordi, evocazioni/rievocazioni, carezze dell'anima e per l'anima, piccoli distillati di sentimenti. E' tutto lì: nella ricerca del cielo, nella terra ‘che è stata il mio assoluto’, in quella "vecchia contadina che racconta una storia senza parlare", in quella casa "tempio ai santi semplici, alla religione del quotidiano", in quei due vecchi che erano ‘vino vero’, in quelle lacrime che hanno bagnato la zappa e ‘passando attraverso la terra si sono trasformate in vino’. Il bagliore concentrato della stella, in due pagine, viene inghiottito dal buio. E ci si ritrova sulla cima della montagna, soli”.
(Massimo Roscia)



Racconto “CANELA” di Sandro Bozzolo


Non saprei definire con precisione il momento del mio arrivo in quell’angolo di mondo, so solamente che è successo per caso. Ero in fuga da un tempo senza tempo, alla ricerca di qualcosa da trovare. Tra quelle pietre arenarie cercavo solamente un passaggio, uno spazio aperto verso un ipotetico nord. Ho trovato soltanto montagne, montagne che chiudevano il cielo in una valle più stretta di qualunque altra avessi mai visto prima e avrei potuto immaginare dopo.
Ho incontrato un paio di esseri umani, lungo il sentiero. Gente fatta di sguardi semplici e sinceri, alberi in mezzo ad altri tronchi più vecchi, più definitivi. Mi hanno guardata con sospetto e curiosità, mi hanno detto che più avanti non avrei trovato niente e nessuno, solo un vecchio un po’ strano e i lupi che nel frattempo erano tornati sulle Alpi Marittime. Ho continuato a camminare.

L’ho visto da lontano, l’ho riconosciuto fin dal primo momento. Aveva la stessa schiena curva di mio nonno sotto il sole del Caribe, il passo fermo di chi inizia e finisce nella terra che ha sotto i piedi, le mani fatte di pietra e di legno. Anche lui si è subito accorto della mia presenza, come un vecchio animale che controlla, senza il bisogno di vedere, ogni minimo dettaglio dello spazio in cui vive.
Gli sono andata incontro, lui è venuto incontro a me, e tutto questo senza che nessuno si sia mosso di un centimetro. E’ stata soltanto una questione di sguardi. Quando mi ha chiesto cosa cercassi da quelle parti, non ho potuto rispondere nient’altro che “il cielo”. Credevo veramente che arrampicarmi su quelle montagne mi avrebbe avvicinato almeno un po’ all’azzurro, e anche per questo continuavo a salire. Il vecchio contadino mi guardò con disprezzante altezzosità. “Non troverai nient’altro che terra”, disse. “Il cielo lo abbiamo lasciato tutto a chi ne aveva bisogno”.

Da quel momento, la terra è stata il mio assoluto. Mi sono specchiata nelle pietre in fondo a ruscelli di neve fusa da una primavera in ritardo. Ho abbracciato la pace di una vita color verde chiaro, mentre una vecchia contadina mi raccontava una storia senza parlare, mi diceva con gli occhi e il sorriso che amava la vita per dura che fosse, e mi parlava di una donna, mi parlava di me. Sono rimasta ore e ore seduta sotto un grande castagno, a contemplare la storia d’amore tra forme di vita diverse, le mani callose del vecchio contadino che si stringevano intorno alla pianta debole, l’ombra delle foglie che adesso gli dava respiro, le gemme dei fiori che diventavano frutti e diventavano colori e diventavano alimento e generavano vita.

Sono tornata una e un’altra volta in mezzo a un bosco, con sorgenti d’acqua intorno a me, e il vecchio contadino continuava a raccontarmi le sue storie. Mi diceva che il denaro è l’invenzione umana più sporca, e nei suoi occhi ho visto la sofferenza di un uomo che dalla vita ha avuto tanti soldi e poco amore. Mi parlava dei veleni che scorrono nelle nostre vene, di gatti e di femmine. Mi parlava di me e delle mie risposte. Parlava un dialetto limpido e duro come la sua stesse pelle; anche per lui l’italiano era lingua straniera. Poi mi ha stretta con la sua mano callosa e mi ha portata nella sua vecchia casa.

Una cattedrale sacra, un tempio ai santi semplici, alla religione del quotidiano. La sua cucina. La cena cuoceva lenta e deliziosa, il calore della legna mi accarezzava i capelli. Le nostre essenze si confondevano con il vapore, la cena si riempiva di noi e tornava infine a essere fagioli, carote, patate, vino. Noi stessi eravamo fagioli, carote, patate e vino. Eravamo solitudini diverse che si fondevano in un’unica sinestesia. Il pavimento in cemento semplice, la lampadina appesa al soffitto, la polenta sulla stufa e il calore del pane appena sfornato erano fatti della nostra stessa materia. E quei due vecchi contadini erano vino nero, carichi del sapore dei mesi e degli anni passati a fermentare nel legno, frutto di infinite stagioni così diverse una dall’altra e tutte così uguali nel loro misterioso ripetersi, soffice polpa nascosta sotto una scorza aspra e dura.

Erano il sapore della semplicità. Uno osservava le montagne attraverso la finestra, l’altra si concentrava sulla calza che stava tessendo. Insieme parlavano di ricordi, parlavano di tristezze, parlavano di fantasmi, parlavano con malinconia, parlavano con nostalgia, parlavano con voce bassa e con voce alta, parlavano della vita e parlavano dalla vita, parlavano con il telefono, e con il televisore, parlavano dei figli, parlavano dei nipoti, parlavano delle stelle, parlavano della marmellata e di cosa sarebbe del mondo se morissero tutte le api, parlavano delle foglie e del vento, parlavano di loro, del formaggio così come lo facevano gli antenati.

In una notte d’ottobre, avevo capito come quel vino fosse fatto di musica e poesia. Il vecchio contadino aveva cucinato per me un arrosto, sessant’anni dopo aver preparato lo stesso piatto all’amore della sua vita. Lo stesso rosmarino, la stessa terra che ha prodotto le stesse carote e le stesse patate di mezzo secolo prima. Poi quell’uomo con la schiena carica di ottantun anni e nessun amico, il “lupo” che con il suo coltello ha spaventato generazioni e generazioni di bambini della sua borgata, ha riempito ancora una volta il bicchiere e ha iniziato a cantare. La storia del suo amore impossibile in rima, una melodia strappata dal silenzio per essere versata nel bicchiere di una sconosciuta venuta dall’altro lato dell’oceano. Le lacrime regalate a Teresita hanno bagnato la zappa di quel vecchio contadino, e passando attraverso la terra si sono trasformate in vino. Da quel giorno, la tavola è stata apparecchiata per una persona soltanto.

Sono arrivata così sulla cima di una montagna, il sole si nascondeva dietro le nuvole. Un vento freddo soffiava e schiaffeggiava le mie guancie, una vecchia croce resisteva in silenzio contro il primo vento d’ottobre. Non sapevo cosa avrebbe significato per me la parola “inverno”, la mia terra lontana era solamente brezza di mare e sole. Su quella montagna sentivo la scia di canzoni antiche che salivano dal fondo della valle, e mi sono ritrovata seduta. Ho aspettato diversi giorni e diverse notti, e mentre aspettavo osservavo le foglie che cadevano, e contavo quanti erano, in ogni momento, gli alberi già spogli. E osservavo il tempo, osservavo le mie mani, osservavo i miei stessi occhi riflessi nel suolo. Quella canzone con la sua melodia antica e triste si avvicinava alla cima dove rimanevo seduta, saliva a passo lento ma con la determinata sicurezza di un qualcosa destinato ad arrivare.

Sono passati giorni e giorni nel frattempo, il mio corpo rimaneva immobile e intatto di fronte all’alba e a un lontano orizzonte. L’intera vita mi scorreva nelle vene, la mia vita scorreva sottoforma di nuvole. La voce che cantava mi accompagnava, cantava poesie al mare, alle montagne, all’uomo, alla storia, alla farina, al pane, ai bambini, ai vecchi, alle madri e ai padri, alla vita.


Sono stata in un angolo di mondo, un forte vento rinfrescava la notte. Una luce tenue illuminava il mio volto, mentre sentivo ancora quella melodia antica che tante volte avevo ascoltato in quei giorni silenziosi. Cantava di una giovane ragazza che aveva camminato un giorno per boschi lontani, e ho chiuso gli occhi sentendo una profonda nostalgia che usciva insieme alle mie lacrime. Quando poi li ho riaperti, mi sono ritrovata sulla cima di una montagna, sola.
Nella bocca, un dolce sapore di vino e d’arrosto.

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